Vent’anni di teatro
di Luchino Visconti

[…] Per la lirica credo che le cose più riuscite siano quelle fatte con la Callas, alle quali aggiungerei Don Carlos e Macbeth. Quando io incontrai la Callas, più di undici anni fa, lei era certamente una grande cantante, ma non era ancora una grande attrice. La diressi per la prima volta nella Vestale, alla Scala, nel dicembre del ’54. Poi preparai con lei La Sonnambula, La Traviata, Anna Bolena, Ifigenia. Furono gli anni d’oro della Callas, e un po’ di merito me lo prendo anch’io. Con Maria ho avuto la soddisfazione di veder nascere una straordinaria attrice. La sua Traviata e la sua Anna Balena restano due grandissimi esempi di interpretazione scenica, oltre che vocale. La Callas è un fenomeno teatrale completo: musicale e drammatico. Credo che di casi simili se ne trovino solo due o tre, in tutta la storia del teatro lirico: la Grisi, si dice, poi la Pasta e la Malibran. Nel teatro di prosa le più grandi soddisfazioni, come regista, mele ha date Rina Morelli, che rappresenta anche un caso straordinario di fedeltà e di collaborazione. Quando la conobbi era già una brava attrice, anzi una bravissima attrice, però era relegata nei ruoli di seconda donna. Oggi io credo che la si possa considerare senza discussione la primadonna del teatro italiano. Il suo è un talento interpretativo di eccezione, come s’è visto anche al cinema: ha fatto la principessa Salina nel Gattopardo e pur nelle ristrettezze della parte ha ottenuto un risultato che ha sorpreso anche me. Lo stesso Lancaster, arrivato dall’America con non pochi pregiudizi, durante le riprese era incantato soprattutto dalla sobrietà con cui Rina usava i suoi mezzi. Dopo ogni «si gira» veniva spesso verso di me scuotendo la testa. «She is wonderful», ripeteva.

 Sono passati ventiquattro anni da quando feci il mio primo film, quell’ Ossessione che adesso, nei panorami storici del cinema, segnala nascita del neorealismo. Ne sono passati ventuno dal mio primo spettacolo di prosa, e dodici dalla mia prima regia nel teatro dell’opera. Sembrano tre attività molto diverse fra loro, e capita spesso che qualcuno mi chieda quale, delle tre, io preferisca.

Non lo so, a dire la verità. Cinema, teatro, lirica: io direi che è sempre lo stesso lavoro. Malgrado l’enorme diversità dei mezzi usati. Il problema di far vivere uno spettacolo è sempre uguale. C’è più indipendenza e libertà nel cinema, ovviamente, e nel cinema il discorso diventa sempre molto personale: si è molto più autori facendo un film, anche se si tratta di un film di derivazione letteraria. Ma bisogna anche dire che il cinema non è mai arte. E un lavoro di artigianale, qualche volta di prim’ordine, più spesso di secondo o di terz’ordine. Prendiamo un film che io amo moltissimo, Monsieur Verdoux di Chaplin: è il prodotto di un geniale uomo di cinema, tuttavia resta inevitabilmente condizionato dal fatto tecnico. Anche il mio secondo lavoro cinematografico, La terra trema, è certo un film importante. Purtroppo, è solo un film. E anche un prezioso documento, certo, ma troppo legato a degli elementi strumentali per essere un assoluto prodotto artistico. Un’opera d’arte figurativa, oppure un poema, questi sono fatti assolutamente artistici, perché non sono mai condizionati da nulla.

Anche in teatro, un regista si trova spesso con un campo d’azione circoscritto: c’è il rispetto che si deve all’autore e a un testo, che spesso è un classico, poi c’è lo schema imposto dagli atti, c’è uno sviluppo dello spettacolo già fondamentalmente preordinato. Solo qualche volta un regista può anche permettersi la libertà di sconvolgere lo schema predisposto dall’autore, se ciò gli consente di ottenere certi risultati.

La forma forse più completa di spettacolo, secondo me, resta ancora il melodramma, dove convergono parole, canto, musica, danza, scenografia. Adesso, dopo aver messo in scena il Falstaff all’Opera di Stato, a Vienna, curerò la regia del Cavaliere della rosa a Londra, al Covent Garden. E un lavoro cui mi dedico con entusiasmo, dopo un po’ di cinema. Fare uno spettacolo d’opera per me è sempre un’attività molto gradevole e mentalmente riposante: poche cose mi rasserenano più della musica.

Così continuo a correre di qua e di là, impegnandomi in questi tre generi. Quando faccio il cinema sogno spesso di riprendere la prosa, e facendo la prosa mi capita spesso di pensare a una nuova messinscena lirica. Si tratta di tre attività che a volte mi sembrano, senza esserlo affatto, dei «violons d’Ingres».

Anche il lavoro di un regista subisce degli alti e bassi continui. Ci sono dei periodi di attesa, di sosta, di carenza vitaminica, se vogliamo. Chi lavora, qualsiasi lavoro faccia, non può mai avere un rendimento continuo. E ci sono per forza, anche nella carriera di un regista, certe indispensabili pause.

Anche a me è capitato di dire basta, qualche volta, ma solo per stanchezza. Alcuni anni fa dissi basta con il teatro, e fu una decisione dettata dalla delusione procuratami da una lunga lotta con la censura, al tempo dell’Arialda di Testori. Per un po’ di tempo andai a lavorare all’estero.

Ci fu anche un momento in cui mi dichiarai apertamente contrario alla creazione di un teatro stabile a Roma, forse per eccesso di pessimismo. Mi sembrava un’iniziativa decisamente negativa, per il pericolo di un condizionamento politico. Invece Vito Pandolfi, realizzandola fra molte difficoltà, ha dimostrato, fino ad oggi, che i miei timori erano per lo meno infondati.

Come si fa oggi del teatro, in Italia? Io direi che il livello medio è buono, e ogni anno si possono vedere delle cose ottime. Le cialtronate che si vedevano una volta, oggi non si vedono più. C’è in generale senso di responsabilità, c’è molta serietà nel lavoro, e dietro a molti spettacoli si sente che c’è una ricerca approfondita. Se mai, il ritardo culturale del nostro teatro dipende dalla sua struttura, e poi dalla mancanza di testi. Ecco perché mi pare molto giusto il tentativo fatto dal nuovo Stabile romano fin dalla prima stagione, cioè rappresentando, accanto ai tre spettacoli principali del Valle, alcune novità italiane al Centrale, su un piano sperimentale. Noi abbiamo sempre sentito dire che in Italia non si trovano buoni testi teatrali, che i giovani scrittori hanno sempre meno l’ambizione di presentarsi al pubblico attraverso la scena. Ma è anche vero che si è sempre fatto poco per favorire i nuovi autori. C’è un solo modo di valutare un testo teatrale, ed è la verifica che si fa su un palcoscenico. Non serve assegnare premi agli autori, non serve neanche leggere i copioni, un po’ come sarebbe inutile cercare campioni ciclisti misurandogli il torace: un ciclista bisogna vederlo in bicicletta, un autore di teatro va provato sulla scena. Anche Pirandello, in fondo, come autore di teatro arrivò piuttosto tardi, dopo aver fatto a lungo il novelliere, e ci riuscì solo quando gli fu possibile provare i suoi testi attraverso la rappresentazione.

C’è sempre stata la tendenza, nella cultura italiana, di considerare il nostro teatro di seconda categoria e di ammirare invece moltissimo tutto quello che si fa all’estero. Bè, io credo invece che oggi noi possiamo considerarci inferiori solo a due o tre situazioni, in Europa. Non conosco abbastanza bene il teatro che si fa in Russia, ma so molto bene che genere di teatro si fa in Francia, per esempio. Diciamo la verità, senza coltivare i soliti complessi d’inferiorità; certi spettacoli che si danno all’estero noi ci vergogneremmo anche di pensarli. Sono spettacoli sciatti, con una recitazione di tipo vecchio, spesso insopportabile. Se vogliamo trovare un teatro che ancora ci insegni qualcosa, oggi possiamo citare solo quello di Olivier, e poi gli spettacoli di Brook, o le interpretazioni di John Gielgud, in Inghilterra. E in Germania il Berliner Ensemble, poi qualche spettacolo d’eccezione in Berlino Ovest, o allo Schiller Theater.

E invecchiato il teatro? Ogni tanto lo si sente ripetere, con vecchie e nuove dimostrazioni. Senza mettermi adesso in polemica con Pasolini, io penso che il teatro abbia ancora molte cose da dire. Non ho mai creduto neanche alla possibilità di una crisi provocata dal fenomeno televisivo. Perché mai il teleschermo dovrebbe uccidere la vecchia scena? Quello che offre la televisione, anche se è costruito su un testo teatrale, rimane un fatto molto particolare: c’è un rapporto chiuso, fra quello che appare sul video e lo spettatore che sta seduto a casa sua. In un certo senso questo vale anche per il cinema: si sta seduti al buio, davanti alle immagini che si muovono sullo schermo, e non ci si sente mai dentro lo spettacolo. Il teatro, invece, richiede una partecipazione collettiva. E un rito, chiamiamolo pure così, che si celebra ogni volta in pubblico, davanti a dei fedeli. Ma non è mai qualcosa che si ripete in maniera uguale. Dopo aver messo in scena un testo ho sempre constatato, assistendo a recite successive, che inevitabilmente lo spettacolo varia di sera in sera. Il teatro, in un certo senso, si reinventa un po’ a ogni rappresentazione, davanti a pubblici diversi, in sale diverse, su palcoscenici diversi. E proprio questo, credo, il vero segreto della sua vitalità»

«L’Europeo», numero 13-14, marzo 1966.

Fuente: http://www.luchinovisconti.net/visconti_pg/visconti_scritti.htm

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